Negli ultimi anni abbiamo osservato nelle Agenzie Fiscali strani fenomeni di “carriera” senza regole certe.
Con enormi difficoltà abbiamo ragionato su nuove procedure di passaggi dalla II alla III e, ove si è riusciti ad arrivare all’emanazione di un bando - come all’Agenzia delle Entrate - questo resta bloccato senza una ragione apparente.
La procedura per 2mila posti in III area è rivolta a lavoratori che da anni svolgono funzioni altamente qualificate nei vari processi fondamentali per il recupero dell’evasione fiscale.
Nonostante i meriti dimostrati e l’alta professionalità, il concorso è altamente selettivo, come dimostra la quantità di circolari e norme che dovrebbero essere la base di studio.
Stessa cosa avviene per il reclutamento dall'esterno dei nuovi funzionari, “arruolati” con la formula del tirocinio che prevede un crudele taglio finale del 40% - al termine di una prova orale - dopo aver superato due prove scritte e avere proficuamente lavorato negli uffici.
Da poco l'Agenzia ha dato una breve informativa su un prossimo concorso per dirigenti, basato su una imprecisata valutazione dei titoli e un colloquio di cui non si ancora nulla.
Suscita meraviglia la sproporzione che c'è fra i due percorsi: grandissime difficoltà per l'accesso alla III area (dall'interno quando si sbloccherà, e sarebbe la prima volta) e dall'esterno per i tirocinanti; mentre i nuovi dirigenti verranno scelti dopo un colloquio e senza altre prove.
E con noi sono meravigliati anche i tantissimi lavoratori, potenzialmente interessati alla dirigenza (e verosimilmente esclusi dal bando) che dopo aver sentito per anni la favola della meritocrazia si aspettavano una selettività adeguata all'incarico. Noi riteniamo che il destino di un'amministrazione sia legato alle capacità delle migliaia di lavoratori più di quanto lo sia alle abilità manageriali di chi li “dirige”.
Però ci preoccupa il metodo con cui si cercano i futuri dirigenti, qui e nelle altre Agenzie.
E ci preoccupa anche il fatto che in 10 anni sia esponenzialmente cresciuto (tanto da arrivare a circa il 50%) il numero di “dirigenti precari” che assumono un incarico senza inquadramento giuridico.
Lì si annida una grande debolezza dell'organizzazione e talvolta anche una imbarazzante e pericolosa confusione di ruoli.
L'Agenzia sembra dunque fare della “precarietà” uno stile organizzativo: precario è il tirocinante, che per lungo tempo sperimenta una condizione di instabilità che non giova al suo inserimento nella piena dimensione “aziendale”; precario è l'incaricato, la cui funzione dirigenziale dura solo a certe condizioni; precario è anche l'esercito delle posizioni organizzative/incarichi di responsabilità, sottoposto al ricatto del tempo e scelto con la fumosa procedura dell'interpello.
Il precariato dell'inquadramento professionale, sembra dunque una scelta organizzativa che giova all'amministrazione ma non ai lavoratori.
La stabilità professionale deve essere un valore, difeso dall'amministrazione e da tutti i lavoratori - dirigenti inclusi.
Essa è garanzia di autonomia di giudizio e di azione, dà serenità e aiuta a costruire rapporti interni meno equivoci e instabili.
La stabilità gioverebbe al raggiungimento di obiettivi di qualità, mentre oggi è forte la sensazione che troppo spesso si badi all'apparenza dei numeri.
Il diritto alla carriera con la scadenza provoca solo ansia da prestazione, la quale notoriamente non migliora le performance individuali.