E’ del tutto evidente che i ministri, non eletti dal popolo attraverso l’esercizio della propria sovranità (II° alinea art. 1 Cost.), tra cui la Fornero, hanno ritenuto superfluo andarsi a leggere la Costituzione su cui hanno giurato al momento della propria investitura.
Affermare che il lavoro non è un diritto, come ha fatto ieri la ministra Fornero è esattamente negare quanto previsto dalla Costituzione italiana nel capitolo Principi Fondamentali, all’articolo 1 (messo li dai Costituenti proprio per dargli il massimo di rilievo).
A poco servono le mezze smentite e le mezze retromarce. Siamo abituati a Berlusconi che ogni giorno diceva esattamente ciò che pensava e poi lo ritrattava (o meglio lo faceva ritrattare dai suoi lacchè) e sappiamo anche che questa è una tecnica ben precisa per dire cose che non si possono dire apertamente ma che, ripetute, fanno “senso comune”, entrano nel lessico sociale e finiscono per essere acquisite come se fossero giuste.
Al di là delle smentite formali è del tutto evidente che la Fornero pensi che il lavoro non sia un diritto.
Ce lo dicono le norme da lei proposte, ed approvate dai Parlamentari (questi si eletti dal popolo ma dentro il porcellum) del Partito “Democratico” del PdL e dell’UdC. Dalla ennesima riforma del sistema previdenziale che ha reso superflui anche i 40 anni di contributi ed ha lasciato col culo per terra centinaia di migliaia di lavoratori costretti ad accettare accordi di uscita dalle aziende e a cui ora viene sottratto il diritto alla pensione, alla contro riforma del lavoro che ieri è stata approvata sempre dagli stessi parlamentari e che nega proprio il diritto al lavoro, allargando la precarietà a dismisura, annullando le residue tutele per chi perde il lavoro, e sono davvero tanti!, e apre ai licenziamenti individuali per motivi economici e senza giustificato motivo cui viene negato il diritto alla reintegra.
L’evidenza non è data tanto dal fatto che un governo di banchieri, di servi del grande capitale internazionale, di professori al servizio dell’ideologia capitalista propongano certe leggi, né che vengano approvate da parlamentari appartenenti a partiti ormai in assoluta e irreversibile crisi di radicamento sociale e nel mondo del lavoro, l’evidenza è la ormai cronica sostanziale acquiescenza delle parti sociali. Tutte, tranne il sindacalismo conflittuale.
Ieri pomeriggio, in occasione dell’ultimo voto di fiducia alla camera sulla “controriforma del lavoro” abbiamo deciso di far sentire ancora la nostra voce, dopo aver proclamato ed effettuato due scioperi generali per contrastarla, l’ultimo il 22 giugno, ed aver dato vita ad innumerevoli iniziative conflittuali in tutto il paese, ci siamo trovati sotto Montecitorio in compagnia della Cgil. A parte il fatto che per recarci a manifestare liberamente abbiamo dovuto più volte respingere le provocazioni e i blocchi delle forze dell’ordine (sic!) che hanno tentato in ogni modo, e con ogni mezzo, di impedirci di arrivare a Montecitorio, sotto il Parlamento siamo stati “accolti” dal servizio d’ordine della cgil che ha cercato di impedirci l’ingresso e la parola. Evidentemente il fatto di essere lì a protestare per la riforma dopo aver ritirato lo sciopero già proclamato, e quindi dopo che il Direttivo Cgil aveva dato un sostanziale via libera al provvedimento, ha prodotto un bel po’ di confusione. Il fatto che, a parte il servizio d’ordine, buona parte dei militanti presenti sulla piazza condividesse apertamente la contestazione alle scelte del direttivo Cgil, il fatto di essere chiamati a manifestare in “articulo mortis”, l’evidenza della distanza abissale tra la necessità del fare e quanto si metteva in campo, hanno prodotto un corto circuito su cui invitiamo a riflettere.
Premesso che noi si andava a manifestare contro la decisione che il parlamento stava assumendo;
premesso che quanto avviene in casa cgil sono problemi e contraddizioni che riguardano la cgil, i suoi iscritti e i suoi militanti, e non noi che abbiamo da tempo scelto la strada irreversibile del sindacato indipendente e conflittuale;
premesso che oggi è evidente la inutilità di una forma sindacato che non dialoghi, comprenda, includa e organizzi la nuova composizione sociale del lavoro, che invece noi proviamo a realizzare nella continua relazione con i senza casa, i senza reddito, i precari, insomma i movimenti sociali che animano le metropoli;
premesso tutto ciò ci chiediamo, e soprattutto lo chiediamo a chi soffre la propria condizione di militante della cgil, se di fronte all’avanzare della devastazione di quanto conquistato dal movimento operaio dal dopoguerra ad oggi sia ancora possibile giustificare l’immobilismo complice o la subordinazione delle lotte al quadro politico vigente o non sia giunta l’ora di una riflessione sul che fare e con chi.
Fra noi, e per noi, la riflessione è sempre aperta.