Oggi, 25 giugno, le RdB CUB Pubblico Impiego vengono ascoltate dalle COMMISSIONI LAVORO E AFFARI COSTITUZIONALI DEL SENATO in merito al decreto legislativo della legge 4 marzo 2009 n.15 (Ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico ed efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, cosiddetto "decreto Brunetta").
Di seguito le valutazioni espresse.
------------------------------------
AUDIZIONE COMMISSIONI LAVORO E AFFARI COSTITUZIONALI
SENATO
ROMA 25/06/09
decreto legislativo della legge 4 marzo 2009 n.15 (Ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico ed efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni)
Il decreto delegato affronta, in una maniera che rischia di essere inadeguata e punitiva nei confronti dei dipendenti pubblici, un problema complesso come quello della funzionalità della Pubblica Amministrazione. Sia la carenza di efficienza che la insufficiente produttività della P.A., non sono dati generalizzabili e senza riscontro, perché esistono vaste aree di eccellenza, trasversali a tutti i comparti, che verrebbero ingiustamente penalizzate da una concezione punitiva del nuovo modello proposto.
È certo che, dopo la campagna di denigrazione dei dipendenti pubblici, equiparati a fannulloni tout court, dopo aver costruite norme dichiaratamente punitive, come per la gestione delle assenze per malattia senza distinguere i casi di malattia reale e documentata, abbattere sui lavoratori pubblici un inasprimento senza precedenti delle norme disciplinari, riducendo la possibilità di contraddittorio, lascia intravedere una prevedibile resistenza al nuovo modello proposto.
La verifica esterna della performance e della produttività appare scarsamente praticabile e di fatto rischia di umiliare proprio quella professionalità dei dipendenti pubblici che li ha sempre resi garanti delle proprie prestazioni professionali. È prevedibile che il soggetto che produrrà la verifica lo possa fare solo in termini quantitativi e formali, il che non vuol dire garantirne la qualità. Del resto gli strumenti di verifica ci sono già tutti nell’ordinamento attuale; è possibile che non siano stati utilizzati nella loro interezza da una dirigenza che ha svolto sempre e solo una funzione di intermediazione tra interessi corporativi, politici e sindacali. Trasformare oggi questa dirigenza in guardiani della rivoluzione può non essere la scelta adeguata ed innescare una condizione di nemesi storica all’interno delle singole amministrazioni. La stessa autonomia della dirigenza, in realtà si limita all’esercizio di un potere disciplinare che la trasforma in semplici quadri intermedi esecutivi di disposizioni esterne alla propria sfera operativa. Perché al di là dei provvedimenti disciplinari, peraltro erogati sotto pressione da parte dell’amministrazione, tutto il resto della funzione dirigenziale è sottoposta ad un sistema di verifiche inappellabile e fortemente limitativo proprio di quella autonomia che si vorrebbe esaltare.
L’affidare parti consistenti del salario a verifiche esterne non sembra un sistema realmente innovativo, né l’attuale crisi economica consente di affermare un sempre più presunto primato del privato sul pubblico. Privato a cui si dice di volersi ispirare, in realtà si sta solo subordinando nei fatti la funzione pubblica al sistema delle imprese private. Senza considerare che così si abbatte il valore intrinseco alla professionalità e alla prestazione lavorativa, per disperderlo in misurazioni avulse dal contesto operativo, che appaiono oggettive solo perché schematiche.
La concertazione sindacale ha sicuramente responsabilità nell’ attuale condizione della P.A., ma non si possono rappresentare come soluzione del problema sia l’annullamento delle relazioni sindacali da un lato, sia la negazione della funzione e del ruolo del sindacato dall’altro. La mancanza di tutela sindacale dei lavoratori pubblici oltre a rappresentare una regressione antidemocratica, non impone necessariamente collaborazione ed a lungo andare diventa causa di conflitto sociale ingovernabile. Non stiamo proponendo una riedizione aggiornata della concertazione sindacale, che noi abbiamo sempre avversato ritenendola contraria gli interessi reali dei lavoratori e che nella attuale fase si sta riproponendo ancora più negativamente del pregresso storico.
Ci riferiamo al tentativo estremo di alcune organizzazioni sindacali di preservare i propri interessi di apparato, sottoscrivendo e sostenendo tutte le misure che graveranno sulle condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti pubblici, dal memorandum all’attuale decreto. È sufficiente ricordare l’ultimo, in ordine di tempo, tentativo di aggirare la riduzione dei distacchi sindacali con formule di ingegneria sistemica pregevoli sul piano estetico ma deprimenti sul piano dei contenuti reali e di quello che in realtà nascondono.
La semplificazione contrattuale, in termini di modello e di comparti appare un altro elemento di ulteriore complicazione che ci vedrebbe costretti, da qui a breve, a dover ripensare il tutto per la difficoltà di applicazione concreta delle norme. La validità triennale del contratto, oltre ad essere penalizzante sul piano, non secondario, del salario, crea una ulteriore rigidità normativa che non consente un intervento correttivo sugli istituti contrattuali che si rivelano inadeguati. L’attuale modello, nonostante tutte le problematiche inerenti, consentiva con i passaggi biennali un monitoraggio degli istituti contrattuali, consentendo correzioni in corsa. Non è un caso che proprio nei bienni economici sono spesso intervenute correzioni profonde sul terreno dell’ordinamento professionale e quant’altro.
La semplificazione contrattuale attraverso la ridefinizione dei comparti non si può pensare di ottenerla negando le differenze oggettive da settore a settore e che, tranne qualche distorsione, sono all’origine dell’attuale differenziazione contrattuale. Stiamo parlando di comparti con funzioni differenziate, spesso con ordinamenti professionali diversi, una diversa definizione della dirigenza, un assetto salariale,con una storicizzazione di risorse diversificata, che risulta non solo non omogeneo, ma legato proprio alla funzione specifica svolta da ogni singolo settore dell’amministrazione pubblica. Prima di trovarsi di fronte ad un’altra opera di ingegneria sindacale, riteniamo sia necessario mantenere l’attuale assetto dei comparti, anche in considerazione del fatto che il governo ha scelto di omogeneizzare l’aspetto normativo sul piano legislativo riducendo la definizione del contratto di lavoro a semplice applicazione di norme codificate per legge.
A meno che l’obiettivo non sia solo quello di ridurre gli agenti contrattuali, colpendo in prima istanza il sindacalismo di base ed il ruolo che esso svolge nel Paese, nonché una parte del sindacalismo autonomo, che, insieme garantiscono un pluralismo sindacale in linea con il dettato della Costituzione.
Ha invece valenza tutta politica l’eventuale scelta di svuotare di contenuti i contratti nazionali per dare la possibilità, attraverso la contrattazione di secondo livello, di ripristinare le gabbie salariali nella nuova versione della flessibilità territoriale. Anche in questo caso dobbiamo sottolineare la scelta di spostare il valore della prestazione lavoro dal suo contenuto al contesto sociale in cui viene erogata. La relatività del valore lavoro e della professionalità appare una scelta in controtendenza rispetto alla dichiarata volontà di valorizzare la performance e la produttività del dipendente pubblico.
La stessa contrattazione di secondo livello appare di difficile individuazione in comparti a complessità strutturale come sanità ed enti locali, dove intervengono altri soggetti contrattuali come le regioni, i comuni, le aziende sanitarie, le municipalizzate…E’ difficile comprendere a quale livello si attesta la contrattazione di secondo livello e che tipo di relazione sindacale si instaura a quei livelli non individuati come sede di contrattazione. Allo stesso modo, in considerazione della complessità esposta, appare di difficile applicazione un modello contrattuale ritagliato su intere aree di lavoro pubblico e reso inutile dalla priorità della norma legislativa che sta a monte. Ci appare un modello che più che di semplificazione ci appare semplicistico e dettato da una volontà parimenti punitiva e decisionista che male si materializza nella realtà lavorativa pubblica.
La vicenda degli organismi sindacali elettivi si ripropone all’interno di una rinata concertazione a perdere. Ipotizzare di andare alle elezioni delle RSU nella scuola nel mese di novembre, con un assetto contrattuale in scadenza e una futura collocazione del comparto ancora incerta, riteniamo non sia razionale.
Senza tener conto che le elezioni RSU nella scuola hanno sempre avuto un decorso complicato e non si comprende ancora perché debbano essere separate da quelle degli altri comparti. Andare ad elezioni delle RSU per poi utilizzare il risultato non sul piano della contrattazione ma su quello della ridefinizione dei rapporti di forza tra le organizzazioni sindacali ci sembra scorretto nei confronti dei lavoratori. A meno che non si voglia totalmente svuotare di significato sia le elezioni che le RSU, creando una condizione di disaffezione elettorale tra lavoratori pari a quella creata sul piano politico e referendario. Riteniamo che le elezioni RSU in questa situazione possano consentire ai lavoratori di esprimersi sul nuovo modello di Pubblica Amministrazione che viene proposto e quindi sia opportuno realizzarle nei tempi previsti, rivedendo il regolamento concordato.
Si può discutere se sia necessaria una fase di transizione che consenta di ridefinire chiaramente gli ambiti di contrattazione ed i relativi ambiti di rappresentatività che non può più essere una, per sempre e per tutte le occasioni. Definito questo passaggio, si deve procedere alle elezioni delle RSU nella loro nuova localizzazione locale e quindi chiedere ai lavoratori un voto che sia anche di valutazione dei nuovi assetti della pubblica amministrazione. Una sfida scomoda, ma terribilmente democratica.
In realtà il decreto delegato rischia che, per combattere il malfunzionamento della P.A., che dovrebbe essere individuato caso per caso e non dato pregiudizialmente come elemento generale e caratterizzante, di distruggere la funzione pubblica e sociale della P.A.. Il nuovo modello che ne deriverebbe è quello di un servizio privilegiato per il sistema delle imprese, con carattere di ulteriore concessione, lasciando il cittadino senza possibilità di servizi pubblici non commercializzati.
Il costo sociale è altissimo e viene pagato dai cittadini utenti, trasformati in cittadini consumatori o in consumatori senza più neanche il diritto di cittadinanza ed i dipendenti pubblici con condizioni di vita e di lavoro sempre più precarie. Un assetto stabile della pubblica amministrazione consente una mediazione sociale dei bisogni e dei diritti dei cittadini che in una crisi complessa come quella attuale, garantisce tenuta e stabilità sociale. Il furore anti dipendente pubblico rischia di nascondere aspetti non secondari della funzione della pubblica amministrazione e dimostra una scarsa conoscenza della storia moderna.
Indicare i dipendenti pubblici come concausa della crisi economica, oltre ad essere un errore concettuale grave, è un errore sul piano della gestione della crisi.
Assumersi la responsabilità politica di tali scelte non è sufficiente di fronte ai guasti reali nel Paese che tali scelte comportano.
Quello che sarebbe necessario ed opportuno, è l’apertura di un confronto serrato sulla condizione della P.A., con il sindacato e nel Paese. È la condizione imprescindibile per una riforma funzionale e progressiva del modello attuale, altrimenti gli ossequiosi funzionari di oggi saranno gli affossatori della riforma domani, come è sempre successo in precedenza.
DIREZIONE NAZIONALE RdB-CUB PUBBLICO IMPIEGO