L’ISTAT ha reso noto qualche giorno fa l’indice IPCA-NEI (l’indice dei prezzi al consumo armonizzato con i paesi europei e depurato dai beni energetici importati) per il 2022, che è determinante al fine degli adeguamenti contrattuali. Il dato reso noto dall’Istituto di Statistica è risultato significativamente superiore a quelle che erano state le previsioni del triennio precedente (+1,0 per il 2020; +1 per il 2021 e +4,7 per il 2022), raggiungendo quota +6,6 per cento. Questo nuovo valore dovrà fare da riferimento per gli adeguamenti salariali previsti dai rinnovi contrattuali ed è risultato sensibilmente superiore a tutte le previsioni precedenti. In base a questo dato i salari dovrebbero salire almeno del 6,6%.
L’accordo quadro di riforma degli assetti contrattuali, firmato a Roma il 22 gennaio del 2009 tra il governo e le parti sociali, stabilì per la dinamica salariale la sostituzione del tasso di inflazione programmata con il nuovo indice previsionale dell’IPCA, depurato dei prezzi dei beni energetici importati, affidando all’ISTAT la sua elaborazione. Da allora l’ISTAT ogni anno a giugno rende noto l’indice IPCA-NEI realizzato per l’anno precedente, più la previsione per il prossimo triennio. In questo caso, è interessante notare come anche la previsione per il 2023 riporti il dato del 6,6%, confermando una vita non breve dell’inflazione in corso.
Il sistema della depurazione dell’indice IPCA dai prezzi dei prodotti energetici importati venne giustificato con la necessità di avere a disposizione un indice sufficientemente stabile che non fosse soggetto ad oscillazioni troppo frequenti. La Cgil non firmò l’accordo del 2009, perché non riconosceva all’IPCA depurato la capacità di rappresentare l’inflazione effettiva. Oggi, a distanza di quattordici anni da quell’accordo, emerge con estrema evidenza come depurare un indice dell’inflazione proprio dei prezzi dei beni energetici costituisca un fattore di completo travisamento della realtà. Sono stati infatti proprio il gas e l’energia i fattori che hanno spinto i prezzi verso l’alto ed eliminarli dal calcolo dell’inflazione significa utilizzare un indice fortemente al di sotto della realtà.
È bene sapere che l’ISTAT utilizza diversi indici per calcolare l’inflazione. L’indice IPCA non depurato per il 2022 è stato calcolato al 12,5%, mentre l’indice NIC, quello che riguarda l’intera collettività, è arrivato sempre per l’anno scorso all’8,1%. Due valori entrambi molto superiori all’indice IPCA-NEI del 6,6% che è quello di riferimento per i rinnovi contrattuali.
I segretari delle organizzazioni metalmeccaniche di Cgil, Cisl e Uil hanno plaudito all’efficacia del CCNL della categoria che garantisce un recupero automatico dei salari in base all’IPCA-NEI, preannunciando un aumento di 123 euro invece dei 27 che erano stati previsti al momento del rinnovo. Certamente una buona notizia per i lavoratori del settore, anche se siamo comunque di fronte al paradosso che dobbiamo sentirci contenti di fronte ad una perdita oggettiva di potere d’acquisto e se c’è la concreta probabilità che i padroni trasformino gli aumenti dovuti in assorbimento dei superminimi.
Ma che succederà ai tanti contratti che aspettano di essere rinnovati? Per i padroni anche il 6,6% di aumento sul 2022 e il probabile nuovo aumento per il 2023 di un altro 6,6% suonano eccessivi. Già il settore pubblico ha fatto capire che non ci sono soldi. L’IPCA-NEI è troppo alto, i contratti possono aspettare!
Ricapitoliamo: l’accordo quadro del 2009 stabilisce che i salari non possono aumentare ma solo seguire l’andamento dell’IPCA depurato, quindi sono destinati a perdere potere d’acquisto. Ora però l’IPCA depurato per il 2022 è risultato oltre le previsioni e comporterebbe un aumento significativo, anche se sempre ben al di sotto dell’inflazione reale. Tuttavia per i padroni è troppo anche questo aumento al ribasso.
Sarà arrivato il momento di cominciare a incazzarsi?
Unione Sindacale di Base