Fino a poco tempo fa si pensava all’Emilia come a un’isola felice, dove esisteva un modello socio-economico capace di svilupparsi e di mantenere intatte finalità solidaristiche. Il modello emiliano, andato in crisi alla fine degli anni 80 ed esploso alla meta degli anni 2000, pur presentando contraddizioni, riusciva a sostenere le criticità.
Oggi i processi di crisi e il disfacimento di quel modello portano il territorio bolognese ed emiliano a doversi confrontare con drammatiche situazioni, vissute solo immediatamente dopo la fine della II Guerra Mondiale. Il numero delle aziende in crisi è in rapido aumento, dal settore industriale a quello dei servizi. La crisi in atto ha portato nell’ultimo anno a una notevole contrazione dei salari. Il quadro già allarmante subirà un peggioramento nelle prossime settimane, a causa della fine degli ammortizzatori sociali. Questo aumenterà il precariato fino ad arrivare a vere e proprie sacche di disoccupazione strutturale, 60.000 a Bologna, fenomeno inedito in questa regione.
Lo strettissimo rapporto tra lavoro e abitare diventa quindi un paradigma della crisi. Per la prima volta si vive l’emergenza abitativa, fino a pochi anni fa legata unicamente agli studenti fuori sede. L’affitto e la rata del mutuo sono le spese che più incidono sul reddito, l’aumento dell’insolvenza di entrambe è la prima spia della sofferenza economica dei lavoratori. La politica, con un’ottica miope, si è illusa che il modello emiliano potesse garantire uno sviluppo del benessere.
L’attuale fase ha smentito questa previsione. Gli strumenti messi a disposizione dalla Regione per affrontare il problema casa sono assolutamente inadeguati: dal fondo per l’affitto, al bando prima casa per giovani coppie passando per l’Housing Sociale, finanziamento per costruttori edili e speculatori immobiliari. Le famiglie investite direttamente dall’emergenza non trovano risposte in queste soluzioni e si innesca una guerra tra poveri per ottenere l’assegnazione di una casa popolare. Si alimentano leggende legate all’immigrazione, creando lacerazioni sociali che rischiano di sdoganare comportamenti razzisti di massa. Si sposta l’attenzione dal vero problema: la mancanza strutturale di investimenti in edilizia residenziale pubblica, che ha permesso a speculatori, cioè proprietari immobiliari e banche, di fare profitti tramite la rendita. Alle altre migliaia di famiglie, che ancora non sono in emergenza abitativa, ma che sono in difficoltà rispetto alla diminuzione del reddito, vengono proposte ricette già viste che prevedono l’acquisto della casa attraverso l’indebitamento, meccanismo che sta portando già molti a perdere l’alloggio per l’insolvenza delle rate.
Sul piano locale, come nel caso di Bologna, le amministrazioni propongono progetti e bandi altrettanto insufficienti, sia per il numero di persone coinvolte sia per le tipologie individuate ad esempio il bando per l’auto recupero che prevede la costruzione di 50 alloggi in tre anni o il co-housing che riguarderà 50 posti letto in 4 anni, o il recente bando anticrisi che ha visto lo stanziamento di soli 230.000 euro. Le cifre solo sul territorio bolognese parlano di 35.000 famiglie residenti che hanno bisogno di sostegno abitativo. Di fronte a questo scenario diverse realtà bolognesi, l’Associazione Inquilini Assegnatari (AS.I.A.-RdB) e spazi sociali come il Lazzaretto Autogestito, l’HUB, hanno dato vita alla rete Bologna Prende Casa (
).BPC è un progetto che permette a attivisti sociali e del sindacalismo di base di lavorare insieme per intervenire dentro le nuove contraddizioni della città. Le diverse esperienze trovano forme di sintesi attorno a progetti di intervento comune. Il tentativo di BPC è quello di riconquistare il territorio attraverso vertenze per spazi pubblici e per il diritto alla casa. Una idea di città non più basata sulla rendita e la speculazione immobiliare, ma un’idea dell’abitare fondata sull’esigenze popolari. Riconquistare territorio vuol dire lottare per le garanzie sociali: salario sociale, un lavoro non precario e la difesa e il rilancio dei beni comuni (acqua, salute, istruzione, ecc..), con una idea di collettivo contrapposto all’idea di mercato. BPC è una forma di sperimentazione di sindacalismo metropolitano, che vuole dare organizzazione e identità ai settori popolari precari, abbandonati o consegnati alle nuove destre.
L’attività in questi mesi ha permesso ad una rete di attivisti di organizzare direttamente porzioni sociali investite dall’emergenza abitativa, dall’apertura di sportelli per il diritto alla casa, alla creazione di una rete per i picchetti antisfratto, creando un meccanismo di mutuo soccorso fra gli sfrattati stessi, passando per occupazioni di alloggi privati sfitti. Si sono susseguite occupazioni di tetti, compresi quelli del Comune di Bologna. Se da un lato assistiamo ad un tentativo di criminalizzazione delle pratiche di BPC, dopo ogni sfratto bloccato a quello successivo c’è il doppio di polizia, dall’altro si sono ottenuti i primi risultati come l’approvazione di una delibera di Giunta che consente il passaggio da “casa a casa” per alcuni sfrattati. L’emergenza sfratti, il caro affitti e l’insolvenza delle rate del mutuo sono i punti al centro della piattaforma su cui sta lavorando BPC.
Le proposte sono l’apertura di “ostelli per sfrattati”, la requisizione di alloggi privati sfitti finalizzato all’aumento delle case popolari e un intervento diretto delle amministrazioni in caso di insolvenza al mutuo prima casa. L’emergenza abitativa in Emilia è omogenea, sono infatti nate altre strutture e mobilitazioni per il diritto alla casa in altre città, come la Società di Riappropriazione Urbana di Parma. La messa a rete di queste esperienze è un passo necessario per riuscire ad essere realmente incisivi, contrastando le politiche a favore della rendita dell’amministrazione regionale.