Qualche giorno fa, nell’ascoltare la lettura dei giornali del mattino, mi è stato chiaro cosa sta accadendo. Il commentatore ha annunciato il titolo in prima pagina dell’Avvenire: La crisi frena, l’occupazione in caduta. Il filo del ragionamento sta tutto qui.
Com’è possibile che si possa parlare di economia mondiale che riparte, come dichiara l’OCSE, quando dall’inizio della crisi alla metà del 2009 si sono già persi, in Europa, oltre 4 milioni di posti di lavoro e, per l’immediato futuro, si prevede un’ulteriore caduta dell’occupazione? Persino il Fondo Monetario Internazionale, che non abbiamo mai considerato un’organizzazione umanitaria, dubita che si possa parlare di ripresa in presenza di una così grave crisi occupazionale. Eppure quel titolo, che ha continuato ad agitarsi nella mia testa per qualche giorno, spiega dove sta, nella sua drammaticità, il cuore della crisi. Ben oltre il numero dei posti di lavoro che si vanno perdendo, o trasformando in forme di sfruttamento paleocapitalista nell’economia irregolare. Dobbiamo prendere atto che, tra i parametri tradizionalmente utilizzati per stabilire se l’economia sia in buona salute o in crisi, il fattore occupazione, pur non irrilevante, ha un peso sempre minore. Ciò in quanto il rapporto tra ricchezza e occupazione, o il rapporto tra prodotto interno ed occupazione, già da tempo in crisi, è diventato ormai del tutto evanescente. Per lungo tempo ci siamo cullati nell’idea, e per un certo tempo è stato vero, che tra l’incremento della ricchezza e l’occupazione vi sia una stretta correlazione. Un’equazione che, da tempo, ormai non funziona, ma ora che gli effetti estremi della globalizzazione incominciano a farsi sentire, ci rendiamo conto di quanto il nuovo quadro di riferimento, che non è solo economico ma culturale, che rappresenta la nuova antropologia di questo avvio di millennio, sia devastante. I sintomi si erano già avvertiti. In piena crisi le retribuzioni dei dirigenti continuano a schizzare verso l’alto in tutte le parti del mondo. Cento, duecento per cento in più in pochi anni a fronte dei salari di fatto degli operai che, quando va bene, non retrocedono rispetto all’incremento dell’inflazione. L’unico rilievo che il lavoro ancora può assumere, in questa contingenza, è quello di consentire il mantenimento dei consumi per una capacità produttiva mondiale ormai ipertrofica. Il problema dell’approvvigionamento di lavoro a basso costo è stato superato. Se non fosse che al sistema occorre una classe di consumatori in grado di comprare, magari incoraggiati dagli sconti statali che incitano alla distruzione di beni al fine di consentire la produzione di altri, sarebbe possibile, nel mercato globale, ridurre ancora di più occupazione e costo di lavoro. Ma non solo economia. Questi insani principi trasmigrano alla politica, ed al diritto. Si sono ormai insediati nel DNA di questa Europa prossima ventura, che, di fatto, attraverso le più recenti sentenze della Corte di Giustizia europea non solo ha “costituzionalizzato” la concorrenza, il diritto di stabilimento, la libertà nella prestazione di servizi transnazionali, sino ad affermare che non è lecito scioperare per chiedere che le imprese straniere applichino ai propri dipendenti condizioni di lavoro analoghe a quelle applicate ai lavoratori del paese in cui operano (Vilking) o che un Land non può imporre ad un’impresa straniera condizioni di lavoro corrispondenti ad un contratto collettivo di lavoro che non abbia valore di legge (Ruffert ) o che uno Stato (Lussemburgo) non può stabilire l’applicazione sul suo territorio di norme più stringenti di controllo per tutte l le imprese che operano sul suo territorio (come imporre che le imprese straniere mantengano sul territorio nazionale un referente dove poter controllare la regolarità delle operazioni che compiono e del trattamento dei lavoratori). Per dire della gravità di questa tendenza, è sufficiente ricordare che lo stesso Parlamento Europeo ha assunto una posizione “dura” affermando, in relazione a tali sentenze, che i diritti fondamentali non possono essere subordinati ai diritti economici, chiedendo un nuovo e più corretto equilibrio per evitare una competizione a favore di standard sociali sempre più bassi. Il Parlamento europeo, che non è sospettato di essere manovrato dai comunisti, ha affermato che queste sentenze, su cui, magari, in una prossima occasione non sarebbe male soffermarsi, sulla base della formulazione della direttiva relativa al distacco dei lavoratori, consenta di interpretarla “come invito esplicito alla concorrenza sleale in materia di condizioni retributive e normative” . Lo stesso Parlamento europeo, contro una breccia ormai apertasi in maniera prorompente e senza il potere di arrestarla, ribadisce che “le libertà economiche dell’Unione europea non possono essere interpretate nel senso di garantire alle imprese il diritto di aggirare o eludere le disposizioni nazionali di legge e le prassi in materia previdenziale e di lavoro oppure di imporre una sleale concorrenza sul piano delle condizioni retributive e normative”.
Questo è quanto ci tocca di commentare, quando siamo di fronte al baratro.
Gianni Loy - www.manifestosardo.org