Buona scuola e questione meridionale
La guerra non dichiarata da parte dei vari governi italiani alla scuola statale, il principale settore dell’impiego pubblico nonché, almeno in teoria, il più importante motore di ascensione sociale del Paese, non conosce più limiti. Vengono attaccati sistematicamente tutti: docenti, ATA, educatori, genitori, studenti, in una mattanza di tagli e di leggi assurde che non risparmia più nessuno.
E’ così che, in questo quadro di attacco oramai generalizzato, la questione meridionale emerge in tutta la sua tremenda attualità, attraverso la “deportazione” di migliaia di lavoratori, in questo caso docenti, costretti a scegliere, ancora una volta, tra il lavoro e la famiglia, con le bassissime retribuzioni che consentiranno appena di vivere nelle periferie delle grandi metropoli del Nord e le relative famiglie abbandonate nelle regioni del Sud.
La lunga “notte dei coltelli” (1-2 settembre) è passata, il Miur ha chiuso in modo autoritario i conti con diecimila precari del Sud che hanno ricevuto una proposta di assunzione in una delle tante province del Nord da un algoritmo informatico che ha trasformato la storia personale di ogni singolo precario in un numero all’interno di una roulette russa senza precedenti.
E’ ancora non è finita, nella fase C altri 55000 posti saranno occupati dai lavoratori del Sud, con un esodo complessivo che potrebbe superare i 30000 insegnati del mezzogiorno spostati coattivamente al Nord in appena dieci mesi, attraverso una manovra che non dovremmo chiamare ormai piano assunzionale ma “emigrazione scientifica e forzata” di forza lavoro intellettuale, al fine di eliminare l’ultimo residuo post-resistenziale di argine alle politiche neoliberiste di riduzione l’individuo ad ingranaggio del sistema di sfruttamento capitalistico.
Il meccanismo per le assunzioni previste dalla Legge 107 del 2015 conferma il carattere reazionario, razzista e classista dello Stato italiano, soprattutto verso la parte meridionale del Paese. Con questo non intendiamo affatto affermare che i vari Governi abbiano favorito, in tutti questi anni di attacchi, i lavoratori del Nord penalizzando quelli del Sud. Non si tratta di questo. Il contratto dei dipendenti pubblici bloccato dal 2009, la cancellazione delle ferie retribuite, l’incremento dei carichi di lavoro, il blocco degli scatti stipendiali, il problema della sicurezza negli istituti etc.. hanno ovviamente interessato tutti i lavoratori della scuola, da Domodossola a Canicattì.
Detto questo, non vogliamo dunque sottrarci ad affrontare la questione del Mezzogiorno del 2015 all’interno della grande complessità del comparto Istruzione visto che, ad oltre 150 anni di distanza dalla c.d. “Unità d’Italia”, ad oltre 60 anni dai trattati istitutivi della CECA e della CEE, ad oltre 20 anni dall’ingresso dell’Italia nell’UE e nell’area della moneta unica, l’elemento caratterizzante di molte delle più importanti controriforme del nostro Paese continua, quasi incredibilmente, a gravitare attorno alla questione del SUD.
Dal rapporto Svimez 2015 emerge che dal 2000 al 2013 le regioni dell’Italia meridionale ed insulare hanno avuto una crescita media di appena il 13 % del PIL. Nello stesso periodo la quasi fallita Grecia è cresciuta mediamente del 24%. I dati del più stretto periodo 2008-2014 descrivono una realtà ancora più dura. In questo periodo infatti il PIL del Mezzogiorno addirittura diminuisce del 13% (la diminuzione nazionale è stata pari all’8,7%), la spesa per investimenti è crollata del 38% ( a fronte di un -27% del Nord), la spesa per consumi delle famiglie è diminuita del 13,2% (al centro Nord è calata del 5,5 %).
I posti di lavoro persi al SUD (tra settore pubblico e privato) dal 2008 al 2014 sono stati 575.787 su un totale di 811.430 posti persi complessivamente nel Paese. In parole povere, il Sud ha pagato il prezzo più alto della crisi occupazionale, in Italia su ogni 10 posti di lavoro in meno 7 si perdono al Sud.
Il Governo Renzi in piena continuità con tutti i suoi predecessori, continua a reprimere tutte le potenzialità del meridione a partire proprio dal capitale umano. Le migliaia di docenti, diplomati, laureati, abilitati e con esperienza pluriennale sul campo, costretti ad emigrare al Nord, rappresentano solamente l’ultima ed infame rapina ai danni dei ceti popolari meridionali.
Il MIUR, senza alcuna reale ragione organizzativa, invece di assumere i docenti precari su quegli stessi posti su cui li ha appena reclutati con incarico annuale, li obbliga ad andare al Nord, pena il licenziamento. Questi docenti non potranno più dare il loro contributo formativo al SUD, dopo aver accumulato un patrimonio di esperienza, con effetti ulteriormente catastrofici sull’apprendimento degli studenti. Questi insegnanti sono stati costretti da Renzi ad andare via da territori già caratterizzati da un’elevata dispersione scolastica e da un tasso di laureati che sfiora a malapena il 20% nella fascia 30-34enni (in un Paese che vanta già il tasso più basso d’Europa pari al 23,9%) con buona pace di tutti i narratori della favola del ’68 ancora in corso e dell’università di massa.
Migrazione forzata, scomposizione sociale, politiche di sottosviluppo, impoverimento dell’istruzione nel mezzogiorno, trasformazione dell’insegnante nell’operaio della scuola-azienda e dipendenza clientelare del mezzogiorno dalla politica(pur di tornare i precari saranno costretti ad accettare i presidi-padroni e cercare di “conquistarsi” la loro fiducia) sono gli obiettivi che il governo Renzi si era fissato con il proprio progetto e che realizzerà pezzo dopo pezzo se i lavoratori della scuola non sapranno fermarlo in tempo. Se politiche come Buona Scuola e Sblocca Italia, solo per fare due esempi, dovessero andare fino in fondo, al Sud rimarrebbero solo macerie. Ancora una volta, al posto di potenziare realmente la rete scolastica e l’offerta formativa anche con l’incremento di posti di lavoro qualificati nella scuola pubblica, in regioni dove la disoccupazione giovanile arriva addirittura a superare anche il 60 % si continuano a tagliare i finanziamenti pubblici e a fare razzia di risorse umane, naturali ed economiche.
Per giustificare il furto degli insegnanti abbiamo sentito dal Ministro Giannini e dal suo vice Faraone affermazioni del tipo: “Non si possono spostare gli alunni, si devono spostare i professori”. A parte il fatto che al Sud ci sarebbero tutti i posti per assumere dalle GAE, questa posizione coincide perfettamente con quella storica della Confindustria secondo cui non sono gli industriali (completamente assistiti dalla spesa pubblica, finanziata anche dalle tasse che pagano i cittadini del Sud) a dover investire al meridione, ma sono i disoccupati che devono spostarsi al Nord.
I continui flussi migratori, in assenza di un forte e radicato sindacato di classe e di massa anche nella scuola, dividono i lavoratori e fanno abbassare il piano rivendicativo delle lotte. Insomma, quel soggetto economicamente passivo per lo Stato italiano e potenziale elemento di disordine o di pericolosità sociale, una volta emigrato al Nord diventerà fattore produttivo, consumatore, risparmiatore e contribuente.
Nei primi decenni del secondo dopoguerra, il movimento operaio in Italia era in forte espansione. La questione meridionale, intesa come questione di classe, venne fatta propria dal movimento. La straordinaria unità di classe tra gli operai del Nord, i quali, sotto guide sindacali avanzate, seppero accogliere come fratelli i proletari che venivano dal Sud riuscì anche a far decollare le lotte per gli investimenti produttivi nel Mezzogiorno.
Purtroppo quella solidarietà di classe è stata via via distrutta, spesso il meridionale che va oggi al Nord, che si trova fuori dalle lotte, fa una vita o da eterno disadattato o da perfettamente integrato nelle dinamiche di pensiero razziste arrivando a fare propria la tesi del suo carnefice secondo cui al Sud la colpa “è della gente”. Gli insegnanti, anche se lavoratori altamente istruiti, non sono affatto immuni da questa trappola.
La scuola pubblica statale laica e democratica sta scomparendo, affossata dal clientelarismo generato dalla logica dei presidi-padroni, dallo sfruttamento dei lavoratori della scuola ridotti ad emigranti del nuovo millennio, dai sistemi di valutazione che diventano strumenti di controllo sociale e di classe volti a trasformare le scuole in fabbriche-caserme, dalle logiche di immiserimento delle esistenze ridotto alla dipendenza dal dirigente e dalla politica per poter sopravvivere.
Il movimento dei lavoratori della scuola dovrebbe invece fare propria la lezione del movimento operario dei due decenni successivi al secondo dopoguerra, dovrebbe avere l’ambizione anche di trasformare in grandi vertenze per lo sviluppo del Sud molte delle lotte dei lavoratori per una vera buona scuola.