Da mesi, da anni, una sottile politica propagandistica ci ripete, incessantemente, che per rimettere in sesto l’economia del paese occorre più flessibilità, occorre ridurre il costo del lavoro. La contrattazione collettiva, ormai da anni, ha accettato di limitare le pretese di aumento salariale entro margini compatibili con il tasso di inflazione programmato, salvo poi, eventualmente, recuperare il perduto potere di acquisto. Ed è stato semplice, fissando ogni volta un tasso di inflazione programmatico inferiore a quello reale, contenere gli aumenti salariali. Salvo che per i dirigenti, la cui retribuzione è schizzata verso l’alto, negli ultimi anni, con incrementi anche del 100 o 200 per cento. Ebbene, in questo piatto panorama, caratterizzato da una rottura dell’unità sindacale, dalla rincorsa di una parte dell’associazionismo sindacale a divenire interlocutore privilegiato del governo di centro destra, in un contesto caratterizzato, ormai da alcuni mesi, dall’incombenza di una profonda crisi economica e occupazionale, due fatti si sono presentati alla nostra attenzione. Il primo: la crisi economica ha dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che tra flessibilità e crescita dell’occupazione non esiste alcun rapporto. Che il livello di occupazione è del tutto indifferente rispetto alla quantità di flessibilità diffusa nei paesi d’Europa. A fronte di una tasso medio di flessibilità che, in Europa, è del 12%, in Spagna il tasso di flessibilità e’ del 28%: un’enormità. Contrariamente a tutte le ipotesi, la disoccupazione, in Spagna, sale in misura doppia o tripla rispetto a quella degli altri paesi ed è previsto che arrivi a sfiorare il 20% entro l’anno. Come se niente fosse, si continuano a ripetere i medesimi ritornelli ed in Parlamento giacciono proposte che vedono tra i firmatari anche esponenti dei partiti dell’opposizione, che vorrebbero dare la spallata finale alle residue tutele dei lavoratori, quelle contro i licenziamenti illegittimi. Il secondo è roba di qualche settimana fa. Improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, sono arrivati i numeri: le retribuzioni, in Italia, sono tra le più basse d’Europa, persino nei confronti di paesi di nuovo ingresso nell’Unione. La notizia ha rimbalzato nelle prime pagine dei giornali, ha occupato per un momento l’informazione televisiva. Il giorno dopo, alcuni imbarazzati commenti. Alcuni strani: rilanciare l’azionariato operaio, incrementare la parte delle retribuzioni legate al risultato… Poi la notizia è scomparsa. Avremmo immaginato un dibattito. Avremmo immaginato un sindacato, forte di questi riferimenti, in grado di rialzare la testa ed aprire una stagione di confronto. Ed invece, dopo 48 ore, la notizia è scomparsa dalle cronache e dal dibattito. E’ durata lo spazio di un mattino. Come una rosa non colta ha perso la sua fragranza, il suo significato. Pochi giorni dopo anche operai hanno ripreso a votare per la lega, il pettegolezzo (gossip) ad occupare le prime pagine dei giornali. E nel nostro stomaco una sensazione di vuoto, per come la questione centrale del vivere, l’equità dello scambio contrattuale, i limiti di sopravvivenza affidati al salario, i diritti inscritti nella nostra Costituzione: un salario sufficiente a garantire una vita libera e dignitosa…, non meritano l’informazione ed il dibattito riservato ad un piccolo pettegolezzo. Non interessano! Dunque la rosa è sfiorita?
Gianni Loy - www.manifestosardo.org