In Italia una buona parte delle archeologhe/degli archeologi è impiegata in edilizia, nell’archeologia preventiva e nell’assistenza in corso d’opera sui cantieri per la realizzazione di infrastrutture e sottoservizi di utilità pubblica, su cui spesso si giocano appalti milionari. Parliamo di figure altamente qualificate, cui è richiesta una solida formazione universitaria, ma che di contro si trovano spesso a operare in condizioni di precarietà, sfruttamento e ricattabilità.
Chi lavora sui cantieri lo fa perlopiù a Partita IVA, attraverso collaborazioni autonome che, in molti casi, non sono frutto di una libera scelta, ma una condizione imposta dalle committenze o dai loro intermediari per poter lavorare. Viviamo un momento storico in cui, in generale, il mercato del lavoro è stato sempre più precarizzato e impoverito dal dilagare di lavoro autonomo “coatto”, in cui è negata qualsiasi possibilità di contrattazione individuale dei compensi (mantenuti volutamente bassi dalla controparte datoriale) e che, spesso, si svolge più secondo le modalità del lavoro dipendente che secondo quelle della libera professione. L’appalto delle commesse avviene spesso per affidamento diretto o su invito: ciò facilita il crearsi di clientelismi e il radicarsi di malcostumi – come le offerte a ribasso e la concorrenza sleale– che, in alcuni casi, consentono a realtà di vario tipo di operare a ribasso nel mercato in regime di semi-monopolio.
Le storture del sistema degli appalti, unite all’abuso di Partita IVA come strumento di precarizzazione del lavoro, si ripercuotono direttamente sulle condizioni delle collaboratrici e dei collaboratori, tra pretese di corrispondere solo metà del compenso qualora si lasci il cantiere prima di un certo orario, rifiuti di riconoscere la giornata lavorativa in caso di maltempo, richieste di seguire due o più cantieri contemporaneamente, mancata retribuzione del lavoro di redazione della documentazione da trasmettere alla Soprintendenza, inserimento di clausole intimidatorie e/o vessatorie nelle lettere d’incarico; non mancano anche fenomeni più o meno evidenti di intermediazione. Il ricorso sistematico al lavoro autonomo ha avuto inoltre l’effetto di frammentarizzare interi settori, incluso quello dell’archeologia, rendendo più difficile organizzare le lavoratrici e i lavoratori in forma collettiva.
È dalla necessità di affrontare tali problemi – lotta al lavoro autonomo finto/coatto, recupero dei diritti basilari, alfabetizzazione sindacale dei/delle professionisti/e – tenendo conto delle specificità del settore, che nasce la decisione di lanciare uno sportello sindacale per l’archeologia, in collaborazione tra Slang-USB e gli archeologi/le archeologhe di Mi Riconosci?
Riprendiamo così il percorso avviato con la vertenza di Niccolò Daviddi contro la società Archeodomus, per vedersi riconosciuto lo status di lavoratore subordinato e, di conseguenza, il diritto a un licenziamento formale (e non il semplice “essere lasciato a casa”), alle differenze retributive e contributive, alla regolarizzazione di un rapporto di lavoro che nei fatti era eterodiretto ed eteroorganizzato. Rilanciamo anche quanto espresso nel Manifesto per l’archeologia italiana del 2022: abbiamo bisogno di un'altra archeologia, se vogliamo che la professione sopravviva in maniera sostenibile innanzitutto per chi la esercita.
Vi aspettiamo quindi il 13 dicembre 2023 a Napoli, dalle ore 17:00, presso il laboratorio “Zero 81” (Largo Banchi Nuovi 10): rompiamo l’isolamento e costruiamo insieme la sindacalizzazione delle professioni culturali!
Il manifesto si può leggere qui: https://www.miriconosci.it/archeologia-italiana-punto-non-ritorno/. Lo sportello, che si propone di fornire in modalità online supporto sindacale e assistenza legale, è invece già contattabile all’indirizzo e-mail sportelloarcheologico@gmail.com.
Uniti/e si vince!
Slang-USB