Per il sesto anno consecutivo USB risponde all’appello lanciato dal movimento Non una di meno proclamando lo sciopero generale di tutte le categorie, pubbliche e private, per la giornata dell’8 marzo 2022.
Sono passati 6 anni dalla scommessa di quel primo sciopero generale del 2017, che per la prima volta dopo tanti anni uscì dalla retorica di una ricorrenza rituale per illuminare tutti i nessi che ruotano intorno alla vita delle donne. Da allora molte cose sono cambiate ma soprattutto sono state rese tangibili dalla pandemia, che, come una cartina al tornasole, ha reso evidente e incontrovertibile quello che da sempre denunciamo: l’Italia come Paese fondato sul welfare familistico, che estrae incredibile valore economico dal lavoro di cura delle donne. L’Italia come Paese dove ogni giorno che passa si allarga la forbice retributiva, si creano rapporti di forza ricattatori nei posti di lavoro aumentando così il fenomeno delle molestie e che è disposto a sacrificare sull’altare della produzione e del profitto vite, sogni, speranze.
Da subito abbiamo allargato la visuale, guardando alla violenza sulle donne e di genere non come fenomeno emergenziale e irrisolvibile ma mettendo insieme il piano dell’indipendenza economica col piano delle reali misure per fuoriuscirne.
I femminicidi aumentano esponenzialmente perché esponenzialmente aumenta la ribellione ai legami violenti.
Vi è una stretta correlazione tra il peggioramento delle condizioni di lavoro, il mancato accesso al lavoro, la discriminazione economica e il percorso a ostacoli che una donna deve compiere per potersi liberare da legami violenti e salvarsi la pelle.
La violenza sulle donne nella sua accezione fisica, quella manifesta e ripugnante, non può essere scissa da quella legata all'aspetto psicologico, economico e istituzionale. Subdola, nascosta, non riconosciuta e per questo più pericolosa.
La violenza economica, che vede il primato dei licenziamenti delle donne, i part time obbligatori, la strategia dei licenziamenti mascherati da trasferimenti a chilometri di distanza da casa. Quella che punta ad un aumento progressivo dell’orario di lavoro, a fronte di salari tra i più bassi d’Europa, in nome di una competitività sfrenata a tutto vantaggio di una classe dirigente ed imprenditoriale che pensa a macinare profitti e spremere come limoni la classe lavoratrice.
O che in questi anni con lo smart working, spesso in connubio con la DAD, ha istituzionalizzato la casa come ciclo continuo della produzione e la moltiplicazione dei carichi di lavoro, creando una fusione tra lavoro subordinato e lavoro riproduttivo e di cura.
Che ancora oggi non riconosce un salario minimo per legge e dunque un potere contrattuale di base per una retribuzione dignitosa, alimentando giorno dopo giorno sacche di lavoro povero, precario, emarginato all’interno delle quali le donne rappresentano la percentuale maggiore. Che erode Stato Sociale, privatizza servizi e non potenzia sanità, trasporti, scuola. Ogni singolo pezzo di servizio pubblico privatizzato costringe le donne a supplire, senza soluzione di continuità, ad uno Stato che rinuncia a mettere in pratica principi di eguaglianza e giustizia sociale.
Per mesi si è raccontata la favola che di fronte alla pandemia siamo tutti sulla stessa barca, ma la realtà ci ha messo poco a dimostrare che sotto ogni punto di vista le cose non stanno così. Dal diritto alla casa al mercato del lavoro, dall’accesso alle cure all’istruzione, l’emergenza sanitaria e i suoi strascichi stanno picchiando in modo più o meno duro a seconda della collocazione geografica e del profilo sociale. Le disuguaglianze economiche, sociali, razziali e di genere preesistenti sono state accentuate e tutto questo rischia di avere conseguenze ben più a lungo termine del virus stesso.
Il 77% dei neogenitori che hanno lasciato il lavoro nell’anno della pandemia sono donne. Un effetto del gender gap che vede l’Italia agli ultimi posti nell’Unione Europea per tasso di occupazione femminile. Dopo il boom dei licenziamenti registrati nel 2020 e rilevati dall’ISTAT anche i dati sulla cosiddetta ripresa appaiono disomogenei e marcatamente "di genere". Rispetto all’anno scorso ci sono 390mila occupati in più ma il gender gap si è acuito. Oltre due terzi della nuova occupazione è appannaggio della componente maschile con 271mila nuovi posti di lavoro mentre i nuovi contratti al femminile sono stati appena 118mila.
A fronte delle evidenti e crescenti disuguaglianze la pandemia avrebbe potuto essere un’opportunità per un’inversione di rotta, che non solo non c’è stata, ma la cui sola possibilità ha accelerato i processi di ristrutturazione dell’apparato economico, con al centro gli interessi delle grandi imprese europee e del sistema bancario e finanziario continentale; mentre, nel piano del governo, sui lavoratori e, in misura assai maggiore sulle lavoratrici, si devono solo scaricare i costi della crisi economica e sociale.
L’8 marzo è una data importante, la giornata dello sciopero generale femminista e transfemminista transnazionale, alla quale aderiamo e partecipiamo come sempre nelle forme e nei modi stabiliti dal Movimento.
La mattina manifesteremo a Roma sotto le finestre del Ministero del Lavoro - alle ore 10 in via Molise - contro il lavoro povero, diffuso soprattutto nelle categorie dove è prevalente il lavoro femminile, migrante e giovanile.
Confederazione Unione Sindacale di Base
17-2-2022