Nei giorni scorsi il Tribunale di Avellino ha condannato 6 attivisti e dirigenti dell'Unione Sindacale di Base ad alcuni mesi di carcere perché, in occasione di una mobilitazione svoltasi nel 2016 ai cancelli della Capaldo Spa di Monocalzati (Avellino), si sarebbero resi "colpevoli di esercitare violenza privata”. Quello che fu uno sciopero organizzato per contestare il mancato rispetto del contratto e le numerose violazioni della legge da parte dell’azienda, è stato interpretato dai giudici di Avellino come un’azione violenta esercitata dai sindacalisti contro gli interessi economici del padrone.
Il verminaio di illegalità e di truffe anche a carico dello Stato, documentate da indagini dell’Ispettorato del Lavoro ma anche da inchieste dei carabinieri, non è bastato al Tribunale di Avellino per intuire il clima di sopraffazione che regna nella gestione del personale di questo tipo di aziende. Si preferisce colpire chi tenta di opporsi a questa condizione invece che smascherare un sistema assai poco trasparente in cui si intrecciano relazioni tra chi agisce e chi avrebbe il compito e l’obbligo di esercitare i controlli.
Il picchetto che venne organizzato quel mattino non è stato considerato parte di una lotta ma si è trasformato in un reato comune, completamente avulso dal contesto e interpretato come una sorta di lite tra cittadini privati, rappresentati come se si trovassero alla pari. In questo modo sono stati messi da parte i poteri di coercizione che le aziende esercitano quotidianamente sui lavoratori, ricorrendo a tutti gli strumenti di cui dispongono, compreso il licenziamento.
È in atto da anni un completo capovolgimento del modo di interpretare i conflitti sul lavoro. All’idea che la legislazione sociale dovesse servire a bilanciare un’oggettiva predominanza del padrone nei rapporti di forza che si danno sul mercato, è stata sostituita una lettura che vede datore di lavoro e dipendente come se fossero normali contraenti in condizioni di equilibrio delle forze. Da qui deriva poi l’idea che qualsiasi atto collettivo esercitato dai lavoratori per rivendicare il rispetto dei propri diritti finisca per essere interpretato come una sorta di estorsione, quindi un atto violento contro la “sacralità” della proprietà privata.
Per ribaltare questa lettura distorta e intrisa di odio di classe serve un risveglio della coscienza democratica del Paese. Dal mondo del diritto innanzitutto e da quello della politica. Dal mondo dell’informazione a quello della cultura. Prima che sia troppo tardi.
Unione Sindacale di Base