da la Rinascita 27 marzo 2008
Roma: stop agli sfratti
Serve una terapia d’urto per bloccare l’emergenza
Fabio Nobile
Il Piano regolatore generale di Roma, approvato in consiglio comunale lo scorso 12 gennaio, ha consegnato alla città uno strumento importante perché in esso sono definite le cornici e i limiti entro i quali si potrà o non si potrà costruire in futuro sul territorio.
A fronte di questo elemento positivo, le nostre perplessità riguardano la quantità di cementificazione della città prevista dal Prg che riteniamo risenta fortemente della pressione dei poteri forti e la questione dell’emergenza abitativa sulla quale il Prg è proprio carente.
Per queste ragioni, in occasione dell’approvazione del Prg, come forze della Sinistra l’Arcobaleno in Campidoglio, abbiamo presentato e fatto approvare un ordine del giorno sull’emergenza abitativa collegato al Prg. Un documento che sollecitava il governo della città a bloccare ogni ipotesi di sgombero degli edifici occupati, a provvedere a una proroga del blocco degli sfratti, ad accelerare le procedure relative alla realizzazione dei Piani di zona previste dalla 167 e ad adottare una nuova politica pubblica che senza ulteriormente cementificare la città possa con acquisizioni, con utilizzo del patrimonio pubblico esistente porre le condizioni per una terapia d’urto all’emergenza.
Una drammatica questione che vede circa 30mila famiglie in lista d’attesa per un alloggio popolare, 7 mila nuclei familiari a rischio sfratto esecutivo, 400 famiglie in occupazione, 15mila domande presentate lo scorso anno per avere dall’amministrazione comunale un sostegno all’affitto. A tutto questo si aggiunga il bisogno dei nuovi poveri, i tanti migranti e nomadi, che vivono nelle baraccopoli lungo le rive di fiumi o tra la vegetazione dei parchi.
Il problema casa e l’emergenza abitativa ad esso connessa stanno subendo una forte e negativa accelerazione.
Intanto, il mercato della compravendita immobiliare, che negli ultimi anni ha visto un’impennata dei costi delle case, ora sta subendo una fase di forte assestamento, con tendenza al rallentamento. Le famiglie a reddito medio-basso hanno difficoltà ad acquistare casa.
La riduzione generalizzata del potere d’acquisto reale di salari e stipendi, vede molti lavoratori e famiglie in difficoltà per soddisfare addirittura la domanda di beni di consumo primari. Figuriamoci quindi per comprare casa. Stesso discorso per le giovani coppie, più propense all’acquisto della casa, ma oggi in gran parte costituite da lavoratori precari.
Anche sul versante degli affitti siamo di fronte a un mercato gonfiato, che divora mensilmente ben oltre la metà di un salario. Sempre più spesso lavoratori monoreddito non hanno la capacità di sostenere un affitto in regime di libero contratto e sempre più aumentano le persone sotto sfratto per morosità.
Per non parlare della spregevole speculazione fatta sulla pelle degli studenti universitari fuorisede e degli immigrati che arrivano a pagare in nero tra i 400 e i 700 euro al mese per un posto letto.
Tutte difficoltà che spingono non poche famiglie, sia romane che immigrate, a trasferirsi in zone a ridosso del raccordo o nei centri abitati più prossimi alla città generando anche lì un mercato immobiliare falsato.
C’è infine la questione delle cartolarizzazioni, avviate nei primi anni duemila dove era previsto per gli inquilini che non volevano acquistare, una proroga di nove anni in locazione. Siamo prossimi a questa scadenza. Ciò vuol dire che tanti altri anziani e presone a basso reddito si troveranno in emergenza abitativa. Lo stiamo già vedendo ad esempio con la vicenda degli inquilini dei Colli Portuensi alle prese con la cartolarizzazione dei loro alloggi da parte di Unicredit
L’emergenza abitativa deve essere affrontata con interventi diversi e variegati.
Intanto occorre abolire l’Ici sulla prima casa per i redditi medio-bassi e detassare la quota d’affitto per chi vive in locazione.
E’ necessario inoltre aprire un serio confronto sui circa 240mila alloggi sfitti presenti in città, affinché si rendano disponibili alla locazione quegli appartamenti.
All’emergenza abitativa andrebbe destinato anche parte dell’immenso patrimonio pubblico e demaniale, come ad esempio le caserme dismesse.
Dall’altro occorre costruire sia nuove case degli studenti per gli universitari che rilanciare un forte piano di edilizia popolare pubblica, ma evitando di creare nuovi ghetti come è successo in passato. In questa direzione bisogna chiudere presto l’esperienza dei residence, da Bravetta a Bastogi a Casal Lumbroso.
E’ anche chiaro che tutto ciò può avere un risultato strategico se si riapre la discussione sulla legge 431/98 per strappare la casa al libero mercato, perché il diritto all’abitare sia considerato un pezzo fondamentale del salario indiretto, dello stato sociale.
I MUTUI
Quarant’anni fa per acquistare una casa bastavano nove anni di stipendio di un operaio.
Oggi ce ne vogliono 22, praticamente due volte e mezzo. I mutui duravano in media vent’anni, oggi durano anche 40 anni.
PER UNA POLITICA PUBBLICA SULLA CASA
Paolo Di Vetta- AS.I.A. RdB
Il settore delle costruzioni tira e, ancora di più, tira il meccanismo della valorizzazione immobiliare. Sul mattone in Italia si sono accumulate e si alimentano rendite incalcolabili, mentre non si costruisce più neanche una casa popolare e migliaia di cittadini sono costretti a riparare in periferia o nell’hinterland alla ricerca di prezzi più accessibili.
A causa di questo autentico assalto alle città promosso dalle grandi società finanziarie e immobiliari, la questione casa non riguarda più la fascia sociale più marginale ma si estende ormai ad un pezzo di ceto medio in via di impoverimento, colpito tanto dai redditi precari quanto della politica dei mutui e dagli affitti arrivati alle stelle. Con ciò si spiega per esempio la percentuale degli sfratti per morosità arrivata all’80%.
Gli appetiti famelici di questo vero e proprio comitato d’affari sono insaziabili. Già puntano sulle prossime dismissioni di aree demaniali e caserme, e già nascono nuove ipotesi di “valorizzazione” in zone pregiate nelle città interessate.
La filosofia dominante è così riassumibile: a) reperire un piccolo nuovo bacino di case popolari per tamponare le emergenze più drammatiche; b) concedere nuove aree edificabili ai costruttori privati e realizzare con loro progetti di social housing: suggestivo termine che rischia di nascondere nuovi patti con i capitali privati che avrebbero la possibilità di mettere le mani su importanti aree pubbliche e demaniali per produrre affitti minori solo di un terzo di quelli di mercato; c) continuare a fare affari con i grandi costruttori proseguendo nella trasformazione dei centro storici in vetrine e nella realizzazione di quartieri esclusivi.
Eppure un’altra strada ci sarebbe: ripristinare un’idea di bene pubblico, mettere al centro le esigenze di chi vive e produce in città e subordinare e condizionare a queste gli investimenti privati. Se le forze politiche, aldilà delle promesse elettorali, non dimostreranno ancora una volta di non voler cambiare rotta, dovranno essere i movimenti di lotta ad assumere questa sfida, portando avanti le battaglie già aperte per ottenere un Piano straordinario nazionale di Edilizia Residenziale Pubblica e per una nuova legge sulla casa, in sostituzione della 431/98 che al pari della legge 30 ha contribuito in maniera determinante all’aumento della precarietà sociale.