Gli scienziati più preveggenti, quando descrivono l’evoluzione possibile dello sconquasso climatico, parlano di guerra. Guerre tra Stati, per metter le mani su acqua, combustibili, metalli scarseggianti. E poi una guerra più enorme, mai vista, nella quale siamo già immersi come responsabili e vittime. Una guerra che impone revisioni radicali: nel modo in cui viviamo, pensiamo, diciamo; nell’idea che ci facciamo della democrazia, dell’economia. Michel Serres, il filosofo francese che insegna a Stanford, parla di guerra mondiale, un termine apparentemente noto ma che per lui significa tutt’altro: questa volta il conflitto è mondiale perché ha per protagonisti l’umanità e il nostro pianeta, il mondo. Un conflitto anomalo, non tra Stati. L’immagine evocata da Serres è quella dei due uomini di Goya che lottano fino allo stremo.
Inutile domandarsi chi avrà la meglio, nel mortale accapigliamento. I volti striati di sangue, i duellanti hanno i piedi conficcati nelle sabbie mobili. Non ci sono vincitori, se non le sabbie mobili che inghiottiranno l’uno e l’altro indistintamente.
Il vertice sul clima che comincia domani a Copenhagen è un consiglio di guerra che ha questa pintura negra, sullo sfondo. Forse il primo consiglio, perché al vertice di Kyoto nel ’97 erano ancora molti i riluttanti, tra cui i primi avvelenatori che sono America e Cina. Quella fase è superata.
Riluttanti e negazionisti si fanno rari, e la verità del collasso nessuno la mette più in causa. Obama sarà presente al vertice. Pechino, indocile per anni, scopre di essere al tempo stesso colpevole e vittima dello sfascio annunciato.
È come se entrassimo in un altro mondo con gli strumenti mentali del vecchio, inconsapevoli per impreparazione indolente al rischio della sconfitta. Ci inoltriamo pensando che lo scontro sarà tra popoli e Stati, come in passato; che potremo barricarci in fortezze; che potremo fare il morto, come nella guerra fredda, scegliendo la non-azione. Ora invece si tratta di agire, di metterci nella pelle d’un futuro forse non scontato ma di certo plausibile, dicono gli scienziati. Nel ’36, prima dell’ultima guerra, Churchill disse che le procrastinazioni e le mezze misure erano fallite; il tempo delle conseguenze (period of consequences) era iniziato.
Anche oggi entriamo in un’epoca dove l’inazione produce conseguenze, battaglie regressive esiziali: come il divieto svizzero di costruire minareti, il muro tra Stati Uniti e Messico, la cortina che i soldati indiani presidiano lungo il Bangladesh, per evitare che popolazioni minacciate dal clima riparino negli slum di Calcutta, Delhi, Mumbai.
Ripensare la democrazia e perfino i tempi moderni, con i loro dosaggi di necessità e libertà, è ineluttabile. Perché grande è la tentazione di dire: nell’emergenza ricorreremo all’autoritarismo. Perché una parte della popolazione mondiale patisce l’inquinamento dei ricchi, e si sentirà legittimata a esigere non solo aiuto ma accoglienza. Già ora, ci sono terre che cominciano a sprofondare nei mari: il Bangladesh, le Maldive. Nel Pacifico, le isole di Tuvalu scompariranno entro il 2040. Nel 2002, il premier Talake annunciò che avrebbe portato gli Usa davanti alla Corte internazionale di giustizia, per emissione spropositata di gas serra.
Tra le cose da ripensare c’è la paura. Siamo stati educati da Roosevelt a diffidarne: «L’unica cosa da temere è la paura stessa». Ma in fondo la paura è salvezza, se non è politica che paralizza spezzando le resistenze. È la convinzione del filosofo Hans Jonas: «La paura, ancorché caduta in un certo discredito morale e psicologico, fa parte della responsabilità altrettanto quanto la speranza, e noi dobbiamo perorarne la causa, poiché la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici» (Il principio responsabilità, Einaudi 2009).
Sono tante, le paure. Paura di perdere un modo di vita, e il diritto del singolo di produrre e consumare quanto desidera. Paura di rinunciare alla massima libertà moderna la tutela delle condotte private dallo Stato in nome di nuovi limiti e obblighi che solo l’autoritario pugno statale sembra poter inculcare. Infine: paura di immensi spaesamenti, di esser sommersi da un’umanità espiantata e dislocata dallo squasso terrestre.
Sono paure comprensibili. Tra gli effetti più funesti del dissesto climatico ci sono infatti gli esodi immani. Fin d’ora il popolo del Bangladesh (160 milioni) fugge terre inondate o non più coltivabili perché salate. Se il mare dovesse alzarsi d’un metro, perché si sciolgono i ghiacci sull’Himalaya e in Groenlandia, un terzo del Paese s’inabisserebbe e i rifugiati sarebbero 40 milioni, dice la Banca Mondiale. Già oggi migliaia di africani scappano da deserti dilatati. Gli scienziati danno cifre impressionanti. Se temperatura e mari superano certe soglie, i fuoriusciti saranno miliardi. Quel che dimentichiamo è che i più (72 per cento, secondo l’Onu) non vanno in Occidente ma in altri Paesi poveri. Gli sfollati asiatici e africani cadono poi nelle mani delle mafie, il cui potere sugli Stati e sul mondo crescerà. Ma è inane combattere solo le mafie. All’origine c’è l’esodo, e dell’esodo gli occidentali ricchi sono i primi colpevoli, con la loro lunga storia di industrializzazione.
La piaga degli esuli ambientali è scritta nel nostro futuro e non la cureremo erigendo muri e distruggendo la globalizzazione, ma approfondendola. Sono i rifugiati climatici, e non hanno lo statuto dato ai profughi politici nel ’900. Alieni, non hanno diritti e questo è imprevidenza oltre che scandalo. Sono apolidi di un nuovo tipo, inascoltabili perché non i dittatori li perseguitano ma la natura. Lo scandalo è attutito solo se lo si governa: con apposite agenzie Onu, con convenzioni sui rifugiati estese agli esuli climatici. L’alternativa è un pianeta urlante di tumulti e risentimento.
La paura secerne anche chiusura smagata, cuore indurito: la frana dell’altro non mi riguarda, separarmene mi salverà. Nessuno però scampa se si prosciuga il lago del Ciad (di cui vivono 20 milioni di persone), o se sono inondati i grandi delta del Gange, del Nilo, del Mekong. La paura di Jonas è fertile: «Bisogna appropriarsi della paura trasformandola nel dovere di agire. La responsabilità è la cura per un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando apprensione».
Al disastro non siamo preparati, e questo ci rende così ignari della democrazia: delle sue fragilità, e delle sue virtù. Solo la democrazia educa tramite l’informazione indipendente, e solo un cittadino informato è responsabile. Solo in democrazia le catastrofi non sfociano in selezioni etniche o sociali. Non è più democrazia, quando l’America trascura New Orleans colpita da Katrina perché abitata da afro-americani. Non è democratica l’Europa centrale che nelle alluvioni sacrifica impassibilmente i concittadini Rom.
Dobbiamo imparare a trattare la Terra come la casa, l’automobile. Non è sicuro ma plausibile che l’incendio le distruggerà, e la paura che ne abbiamo ci spinge a sottoscrivere una polizza d’assicurazione. Lo stesso urge fare con la terra, l’acqua, i mari, le foreste di cui è fatto il pianeta. Nell’immediato potremmo proteggerci asserragliandoci, ma alla lunga perderemo ancor più perché i sacrifici cresceranno. Alla lunga, solo le sabbie mobili della pittura nera saranno vincitrici.
È pensare il futuro, il compito. Lo dice Machiavelli nel Principe, che sopravvivono solo le civiltà che prevedono discosto, lontano, come i Romani antichi: «Li quali, non solamente hanno ad avere riguardo alli scandali presenti, ma a’ futuri, et a quelli con ogni industria ovviare; perché, prevedendosi discosto, facilmente vi si può rimediare; ma, aspettando che ti si appressino, la medicina non è a tempo, perché la malattia è diventata incurabile».
Barbara Spinelli - Analisi - La Stampa