Per garantire il diritto alla salute e alle cure non esistono altre ricette: più assunzioni, stabilizzazioni, internalizzazione dei servizi dati in appalto, scorrimento delle graduatorie, potenziamento degli ospedali pubblici, più posti letto, abolizione del numero chiuso nelle Università, investimenti in prevenzione, cure territoriali e cure riabilitative.
Non c’entra il Covid, se non per l’enorme accelerazione che ha impresso a questo disastro; basti pensare alle liste d’attesa mai recuperate. Il cortocircuito che si sta abbattendo sulla Sanità pubblica il combinato disposto di assenza di medici e infermieri grazie ad una programmazione della formazione universitaria miope e politicamente colpevole, di carenza di posti letto, di bassi stipendi, di tetto alle spese del personale, di acuirsi delle disuguaglianze dovute alla regionalizzazione del sistema, rischia di rendere irreversibile il processo di smantellamento del Servizio Sanitario Nazionale. E non sarà il PNRR, con il suo carico di fuffa e di ulteriore privatizzazione ad invertire la rotta. Il personale, in particolare medici, infermieri e OSS, è ridotto all’osso, tanto che le ferie - dopo oltre due anni di lavori forzati a causa della pandemia - possono essere garantite solo attraverso la chiusura di interi reparti e a ulteriore discapito dei cittadini.
E non va meglio alle altre professioni sanitarie della prevenzione, della riabilitazione e di tutte le figure professionali tecniche e amministrative. Le regioni del Nord, che hanno possibilità di spesa, non trovano personale da assumere e i reparti si svuotano; le regioni del Centrosud hanno migliaia di precari che non possono assumere perché non hanno i soldi per farlo. È facile in fondo: basterebbe AUMENTARE I SALARI e avere la volontà di investire subito nella Sanità pubblica almeno l’equivalente di quanto il governo Draghi ha deciso di concedere, nonostante la contrarietà popolare, per l’invio delle armi da guerra in Ucraina.
Nonostante lo squilibrio nella capacità di spesa tra Nord e Centrosud sia sempre esistito, e sia alla base delle disuguaglianze conseguenti alla regionalizzazione del SSN, in Sardegna la forbice si è notevolmente allargata anche determinata dall’emergenza Covid e dagli stipendi talmente bassi da non compensare il maggiore costo della vita. Inoltre, i pochi, insufficienti,neolaureati scelgono spesso di andare a lavorare all’estero, nel Nord Europa, dove gli stipendi sono di gran lunga più dignitosi e la funzione sociale non squalificata come in Italia, dove “gli eroi” subiscono migliaia di infortuni l’anno a causa di violenze, aggressioni e minacce da parte di una cittadinanza esasperata da tempi d’attesa biblici.
Sono migliaia gli infortuni denunciati all’Inail tra il 2016 e il 2020, ma parliamo ovviamente solo della punta dell’iceberg, perché il grosso resta sommerso. Raschiando il fondo del barile si cedono in affitto i medici del Pronto Soccorso e interi reparti al Terzo settore, con appalti al ribasso e consapevoli di foraggiare il lavoro nero, ma la coperta è corta perché la carenza di personale sul “mercato” riguarda sia il pubblico che il privato e al massimo si può assistere ad un travaso tra l’uno e l’altro a seconda delle condizioni offerte. Il taglio dei posti letto e la chiusura di interi ospedali, completa il quadro di una sanità pubblica regionale in coma irreversibile.
In piena pandemia pensare di arginare il problema attraverso una nuova riforma sanitaria non è stata solo follia ma malafede politica. Il territorio, insieme alla prevenzione e alla riabilitazione, è stato il primo ad essere smantellato quando negli anni ‘90 si è scatenata la furia privatizzatrice. Una rete capillare fatta di strutture, professionalità e saperi non si ricostruisce in un giorno semplicemente evocandola nel PNRR e distribuendo poltrone. E, anche volendo prescindere da ciò, il TERRITORIO non può esistere senza una degna rete ospedaliera, almeno quanto gli ospedali non possono funzionare senza un efficace filtro territoriale. Come non far presente la lenta agonia del Businco, ospedale oncologico di riferimento regionale, non solo problemi strutturali e organizzativi ma anche la mancata concessione di prestazioni aggiuntive non permette l'abbattimento delle liste d'attesa. Oltre ad essere drammatica la diagnosi di cancro, non è accettabile che un essere umano debba aspettare 60 giorni per un intervento di tumore alla mammella.
Per tutti questi motivi USB ha indetto una settimana di mobilitazione nazionale della Sanità. A Cagliari si terrà un
PRESIDIO MARTEDÌ 28 GIUGNO ALLE ORE 10
DAVANTI ALL’ASSESSORATO REGIONALE ALLA SANITÀ, IN VIA ROMA 223
Unione Sindacale di Base Sanità - Sardegna