Il costo del singolo biglietto per la Galleria degli Uffizi aumenterà a 25€ (più 4€ di prevendita nel caso di prenotazioni online) per tutto il periodo di alta stagione, che va da marzo a novembre.
È la decisione approvata all’unanimità dal Consiglio di Amministrazione, dovuta al caro-energia che ha visto salire drasticamente i costi dei consumi e subito approvata dal ministro Sangiuliano, il quale, nientemeno che dal palco di Pompei dove presiedeva la riapertura della Casa dei Vettii, l’ha definita una “questione morale”. Gettando così i presupposti affinché sia replicata altrove.
Tralasciando le dichiarazioni del ministro – che applaude l’iniziativa in quanto ci adeguerebbe ai prezzi europei e individua il target di utenza dei nostri musei nella “famiglia americana che spende 10-20mila euro per visitare l’Italia” – questa vicenda ha tratti paradossali.
È paradossale che la scusa fornita per giustificare tale operazione sia quella dell’aumento dei costi dei consumi, un dramma che tantissime persone stanno vivendo sulla propria pelle e contro cui il Governo stenta a trovare misure adeguate. Forse il ministro Sangiuliano non ha considerato che aumentare il costo dei musei è solo un altro rincaro sulle spalle dei cittadini che di questi spazi vorrebbero fruire, e che per questo già pagano le tasse. Stiamo parlando, infatti, di servizi pubblici essenziali (dal 2015) che non esistono esclusivamente per i turisti, ma in primis per la cittadinanza. O forse, di una mera scusa si tratta. Simile a quella della “difesa del patrimonio dagli atti vandalici degli ambientalisti” utilizzata giusto qualche mese fa, sempre nell’ottica di rendere accettabili agli occhi dell’opinione pubblica eventuali rincari sui biglietti d’ingresso dei musei statali. Un tema che, a quanto pare, sta molto a cuore al nostro Ministero dei Beni Culturali.
È paradossale, inoltre, che ci si affanni tanto per adeguarsi a presunti standard europei nell’aumento del costo dei biglietti – i nostri musei sono così pregevoli da meritare che chi voglia visitarli, possibilmente il ricco turista straniero, sborsi adeguatamente – ma la stessa preoccupazione non sia mai rivolta ad aumentare gli stipendi e le tutele di chi, in questi musei, ci lavora. Ci piacerebbe leggere gli stessi proclami, gli stessi riferimenti a “questioni morali” quando si parla di internalizzare e stabilizzare il personale che da anni presta servizio nel settore, o di garantire retribuzioni e contratti adeguati a chi, in appalto per 4-5€ lordi l’ora, mantiene aperti, fruibili e sicuri ogni giorno i luoghi della cultura. Chi guadagna sulla cultura italiana non sono i lavoratori né lo Stato, ma i privati che grazie alla Legge Ronchey del 1993 si sono accaparrati i cosiddetti “servizi aggiuntivi”. Biglietterie, bookshop, didattica, visite guidate, accoglienza e controllo accessi, diritti di prevendita: gran parte dei ricavi finisce nelle tasche delle aziende che hanno soppiantato le istituzioni nella gestione dei beni culturali.
Le politiche degli ultimi tempi ci hanno abituati a una brandizzazione del patrimonio e a una turistificazione degli spazi che hanno trasformato centri storici, quartieri e intere città in vetrine, sottraendole alla comunità e alla vita quotidiana. E hanno convertito musei, siti e monumenti in aziende votate al turismo di massa con l’obiettivo del fatturato, o tuttalpiù in luoghi asettici e patinati appannaggio di quell’élite che, di 25€ in 25€, potrà permettersi il “lusso della cultura”.
Ma la cultura non è un vezzo, un prodotto turistico o un lusso di chi se lo può permettere. È un diritto di tutte e di tutti. E come tale deve essere pubblica, accessibile e il più possibile gratuita, anche e soprattutto in momenti come questo. Aumentare il costo dei musei non fa altro che andare a pesare sul carovita generalizzato, sottraendo a una parte della popolazione la possibilità di accedere al patrimonio pubblico e di poterne beneficiare. Non fa che aumentare il divario tra i luoghi della cultura e il tessuto sociale, laddove questi ultimi dovrebbero piuttosto svolgere una funzione aggregativa in termini di socialità, ricreazione, identità, sviluppo e diffusione del sapere.
Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, recita la definizione ufficiale di ICOM. Che forse il ministro Sangiuliano farebbe bene a ripassare.
SLANG USB