di Emanuele Stolfi
ROMA – Dice un antico proverbio cinese: “Il cattivo leader è colui che la gente disprezza. Il buon leader è colui che la gente rispetta. Il grande leader è colui che fa sì che le persone dicano ‘l’abbiamo fatto noi’”. A distanza di secoli ancora oggi ciò che conta maggiormente in qualsiasi organizzazione del ventunesimo secolo non è tanto la tecnologia, quanto il fatto che tutti i suoi membri si sentano disposti a condividere con gli altri il loro personale sapere, la loro personalissima porzione di cose apprese, rendendo così possibile parlare veramente di “knowledge management”.
E’ questo principio della conoscenza condivisa presente almeno nella grande impresa italiana? A giudicare da alcune recenti esperienze la risposta non è delle più incoraggianti. Valga per tutti l’esempio dell’Inps, un moloch di 28.000 dipendenti, 700 miliardi di budget annuo tra entrate e uscite, 18 milioni di pensioni corrisposte, oltre alla disoccupazione, alle prestazioni sociali, al sostegno delle famiglie, all’invalidità civile.
Insomma di gran lunga la principale azienda sociale italiana, dove però competenze, formazione professionale, integrazione di personale da enti soppressi (Inpdap, Enpals) sono considerati costi da tagliare e non garanzie di tenuta. Il risultato è che il 76% degli impiegati ha oggi più di cinquant’anni e solo lo 0,4% meno di trentacinque. Inoltre di quel 76% della vecchia guardia più di 6.000 (che potrebbero diventare quasi 9.000 con gli esodi anticipati) stanno per andare in pensione nei prossimi anni. Se non saranno rimpiazzati integralmente (per adesso sono state autorizzate solo 680 assunzioni) l’Inps rischia davvero il collasso e una perdita verticale di professionalità, a tutto vantaggio di patronati, caf, commercialisti.
Il fenomeno dell’obsolescenza professionale dell’Istituto è tanto più evidente nei suoi centri vitali, come il famoso “cervellone” che da 40 anni ne assicura il core business e intorno al quale ruota tuttora l’universo pensionistico italiano. “L’informatica dell’Inps – denuncia Luigi Romagnoli dell’Usb – da fiore all’occhiello della pubblica amministrazione è diventata negli ultimi vent’anni una società pagatrice di società esterne le quali, oltre a subappaltare spesso i lavori con contratti capestro, impongono soluzioni operative scavalcando il personale tecnico dell’ente”.
Nella Direzione centrale strategica guidata da Vincenzo Damato, a fronte di 300 informatici dell’Inps lavorano almeno 2.000 informatici esterni delle più grandi imprese multinazionali, come l’Ibm, la Kpmg, l’Accenture, ecc. C’è di più, quei pochi tecnici Inps impegnati nel settore per definizione più innovativo e tecnologicamente avanzato hanno un’età media che si aggira sui 55 anni, con punte paradossali di appena 6 funzionari con meno di 50 anni nella categoria funzionale più elevata (C5) e 85 in quella immediatamente inferiore.
Anche i costi dell’area informatica, che nel 2014 avevano segnato il picco di 717 milioni di euro, hanno cominciano a decrescere. Già nel 2015 infatti il totale dei costi del settore era sceso a 604 milioni, spalmati più o meno su tutte le principali voci, come l’assistenza tecnica e la manutenzione del software (96,4 milioni -18,7%), la trasmissione dati (67,1 milioni -36,1%), i servizi di contact server (84,8 milioni -17,9%) ed anche il fitto dei locali e la loro manutenzione, pur rimanendo elevato(complessivamente 123,1 milioni), risulta in fase calante.
Ma l’opera di smantellamento del “cervellone”, cioè dello storico Mainframe dell’Inps, è ormai entrata nella sua fase operativa. Il Codice dell’amministrazione digitale (CAD), approvato con decreto legislativo del marzo 2005, prescrive infatti che le pubbliche amministrazioni centrali e locali sono tenute a riorganizzare le proprie strutture e procedimenti secondo le nuove tecnologie della comunicazione, per assicurare “la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell’informazione in modalità digitale”.
L’Agid, l’Agenzia per l’Italia Digitale, conseguentemente ha imposto all’Inps di cessare di mantenere e potenziare gli elaboratori centrali per migrare verso piattaforme cloud, all’insegna del risparmio e dell’open data, cioè appunto dell’accessibilità e fruibilità di tutti i dati in suo possesso, col solo vincolo della normativa in materia di protezione dei dati personali.
Come molte riforme “all’italiana”, anche questa della destinazione finale dell’infinità di dati dei cittadini italiani posseduti dall’Inps desta qualche dubbio e perplessità. Ci si avvia cioè allegramente verso la rivoluzione digitale senza aver risposto concretamente alle domande sensibili che i cittadini si pongono: quale sarà il costo di questa “emigrazione” epocale dei dati in termini di sicurezza ed integrità degli stessi? Chi ne avrà realmente il controllo e come verranno utilizzati? A chi giova lo smantellamento della potenziale possibilità di incrociare i dati per combattere l’evasione fiscale e quella contributiva? E’ sicuro che dallo svincolo del fornitore unico dei servizi informatici (la padella) non si cadrà nelle mani di un fornitore unico del servizio di cloud (la brace)?
Prima di procedere verso le nuvole sarà opportuno vedere molto chiaro che cosa sta succedendo in terra.